Vademecum Responsabilità degli enti
INTRODUZIONE
La responsabilità dell’ente è contenuta nel d.lgs. 231/2001, un risultato legislativo al quale il nostro ordinamento è giunto all’esito di un percorso durato decenni. Le resistenze ideologiche e politiche contrarie ad una siffatta disciplina si sono trovate a dover cedere alle esigenze determinate dagli obblighi europei ed in generale dei trattati sovranazionali. In particolare, si parla della Raccomandazione (88) 18 del Consiglio dei Ministri del Consiglio d’Europa, indirizzata agli Stati membri che ancora non avessero introdotto una responsabilità penale degli enti; gli atti internazionali derivati dall’art. K3 del Trattato sull’Unione Europea: la Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee (1995), il suo primo protocollo (1996), la Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione europea (1997) e la Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione dei pubblici uffici ( 1997).
Fino a quel momento nella storia giuridica europea si ereggeva, quale pilastro di quel diritto penale tipicamente antropomorfo, il principio del “societas delinquere non potest”, cioè la società -intesa come qualsivoglia struttura plurisoggettiva- non poteva essere destinataria di un giudizio di disvalore criminale. Il d.lgs. 231/2001 ha, allora, sovvertito tale “dogma”, sostituendo la precedente concezione con un nuovo ed opposto brocardo: “societas delinquere et puniri potest”.
LA NOZIONE DI ENTE
La disposizione d’interesse è l’art.1, in particolare il comma 2, dove viene detto che: “Le disposizioni in esso previste si applicano agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica”.
Si delinea, così, un ambito di operatività della responsabilità che evita di far riferimento al concetto, a noi più familiare, di “persona giuridica”: questa negli anni ha assunto uno spettro linguistico eccessivamente ristretto, esprimendo una responsabilità limitata dei suoi componenti ed amministratori. La stessa relazione ministeriale al decreto spiega l’indicazione: «… l’evidente volontà della delega di estendere la responsabilità anche a soggetti sprovvisti di personalità giuridica ha suggerito l’uso del termine “ente” piuttosto che “persona giuridica (il segno linguistico avrebbe dovuto essere dilatato troppo al di là della sua capacità semantica)».
A ben vedere, lo spettro dei soggetti, ai quali è possibile applicare questa responsabilità, risulta essere decisamente ampio, comprendendo: le persone giuridiche private, le associazioni riconosciute e non, le società di persone e di capitali ed infine gli enti pubblici economici. La norma non si caratterizza per una particolare capacità selettiva, né sulla base di un criterio qualitativo, né tanto meno sulla base di un criterio quantitativo; anzi, con il citato richiamo, il legislatore ha voluto far riferimento agli enti che, «seppur sprovvisti di personalità giuridica, possono comunque ottenerla», con l’evidente scopo, sottolineato nella legge-delega, di prevenire forme associative escluse dalla disciplina in oggetto.
Le ipotesi sostanzialmente escluse dalla disciplina in esame sono essenzialmente due:
a) La disposizione del presente decreto <<non si applicano allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non economici nonché agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale>>, art. 1, comma 3. Il discrimen è nella mancata funzione economica di questi enti.
b) Inoltre, il decreto in esame non si applica a quei paradigmi economici in cui non è possibile individuare una soggettività autonoma ed ulteriore rispetto quella della persona fisica. Gli indici sintomatici sono: 1) presenza di un patrimonio dell’ente; 2) presenza di un interesse proprio dell’ente; 3) presenza di una forma – anche se minima- di organizzazione. La giurisprudenza è pacifica ormai nel ritenere l’imprenditore individuale escluso dall’ambito applicativo del d.lgs. 231/2001. NOTA BENE: anche la società unipersonale è soggetto destinatario del diritto penale all’ente, <<in quanto soggetto distinto dalla persona fisica che ne detiene le quote>> (Cass. Sez. VI, 25 luglio 2017, Loviro s.r.l.).
NATURA
Prima di addentrarci nei particolarismi di tale legislazione, è senz’altro opportuno analizzare la natura di tale responsabilità. Il d.lgs. 231/2001 fornisce una prima indicazione nel suo art. 1, comma 1, dove si dice che: “il presente decreto legislativo disciplina la responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato”.
Dalla lettura sembrerebbe trattarsi di un tipo di responsabilità amministrativa, la realtà è tuttavia ben diversa. Tale fonte normativa è un chiaro esempio di dissociazione del dato formale deciso dal legislatore con il suo effettivo contenuto, infatti, dalla lettura sistematica del decreto e dallo studio della relazione ministeriale al decreto, si deve giungere ad una diversa valutazione orientata ad affermare la natura penale di siffatta responsabilità, le ragioni sono varie: il legame dell’illecito societario con la realizzazione di un reato cd. presupposto (di cui più avanti parleremo), la previsione di sanzioni mutuate dal diritto penale della persona fisica, l’affidamento dell’accertamento sull’illecito al giudice penale secondo le regole del codice di procedura penale, o ancora, il principio di riserva di legge (art. 2, d.lgs. n. 231/2001), l’irretroattività della norma sfavorevole e la retroattività della norma più favorevole. In tal senso, numerosi autori sul tema hanno perfino sostenuto come il nomen juris individuato dal legislatore sia in realtà “una truffa delle etichette”. La giurisprudenza, sul punto, ha sempre escluso di poter accogliere la tesi riguardo alla natura amministrativa della responsabilità, oscillando tal volta verso una natura pienamente penale dell’illecito societario, altre volte verso quello che da ultimo, la Cassazione ha definito come “tertium genus”. La Suprema Corte ha anche affermato che questo – nuovo – modello punitivo deve essere rispettoso dei pilastri costituzionali tipici della materia penale, la cui presenza impone il più alto livello possibile di garanzie. Rilevante in tal senso è anche la decisione assunta nel caso Riva F.i.R.E. s.p.a.: «decisamente esclusa unicamente la tesi della natura meramente amministrativa della responsabilità degli enti», bastando ciò «per ammettere che, in relazione alla natura (quantomeno, anche) penale della responsabilità degli enti, la disciplina dettata dal d.lgs. n. 231/2001 deve essere compatibile con i principi dettati dalla Costituzione in tema di responsabilità penale».
Tale necessario rispetto delle garanzie costituzionali nella responsabilità dell’ente, non è un criterio sempre seguito dalla giurisprudenza. Il conio di una nuova forma di responsabilità comporta inevitabilmente la possibilità, in sede interpretativa, di affievolire talune garanzie, muovendo proprio dalla non totale sovrapposizione tra la resp. penale ed il tertium genus. Una simile questione si è manifestata sul tema della prescrizione: in linea generale, la disciplina della prescrizione di cui al d.lgs. n. 231/2001, all’art. 22 stabilisce che le sanzioni amministrative si prescrivono nel termine di cinque anni dalla data di consumazione del reato. Inoltre, al secondo comma prevede che il decorso della prescrizione si interrompe con la richiesta di applicazione di misure cautelari interdittive e con la contestazione dell’illecito amministrativo, ai sensi dell’art. 59, comma 2, d.lgs. n. 231/2001. Quest’ultima causa interruttiva interrompe il corso della prescrizione fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio.
Il problema sulla natura della responsabilità dell’ente assume qui un ruolo centrale. Muovendo dalla natura di tertium genus della responsabilità dell’ente, e non quindi di responsabilità penale pura, la Cass. Sez. VI, 10 novembre 2015, in Ansaldo Energia s.p.a. ed altre, ha ritenuto infondato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 22 (prescrizione) con gli artt. 3, 24 comma 2 e 111 comma 2 Cost, enunciando quanto segue: <<il sistema di responsabilità ex delicto di cui al d.lgs. n. 231 è stato qualificato come tertium genus, sicché non può essere ricondotto integralmente nell’ambito e nelle categorie dell’illecito penale. Pertanto, se i due illeciti hanno natura differente, allora può giustificarsi un regime derogatorio e differenziato con riferimento alla prescrizione>>
STRUTTURA DELL’ILLECITO
L’illecito amministrativo derivante da reato si compone di 4 elementi: a) la realizzazione di un reato presupposto; b) l’interesse o vantaggio dell’ente; c) il rapporto qualificato; d) la colpa d’organizzazione
A) Reato presupposto: Il nullum crimen sine lege viene usato dalla dottrina per far riferimento al principio in base al quale: un soggetto può essere ritenuto penalmente responsabile di un fatto solo, se questo sia espressamente qualificato come reato da una proposizione normativamente dettata dal legislatore. Il legislatore, con l’art. 2 del d.lgs. 231/2001, ha recepito il principio di legalità nel sistema, ma non solo, con il successivo art. 3 ha disciplinato anche il fenomeno della successione di leggi nel tempo. Nonostante si sia deciso di non definire come “penale” la responsabilità degli enti, è riconosciuto il carattere afflittivo delle sanzioni richiamando, di conseguenza, i principi di garanzia di matrice costituzionale che regolano il diritto penale.
Art. 2
Principio di legalità: 1. L'ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto costituente reato se la sua responsabilità amministrativa in relazione a quel reato e le relative sanzioni non sono espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto.
Art. 3
Successione di leggi: 1. L'ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto che secondo una legge posteriore non costituisce più reato o in relazione al quale non è più prevista la responsabilità amministrativa dell'ente, e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti giuridici.
2. Se la legge del tempo in cui è stato commesso l'illecito e le successive sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli, salvo che sia intervenuta pronuncia irrevocabile.
3. Le disposizioni dei commi 1 e 2 non si applicano se si tratta di leggi eccezionali o temporanee.
La responsabilità dell’ente necessita, quindi, della commissione di uno dei reati espressamente indicati dalla legge, cioè uno dei reati elencati nel cd. catalogo dei reati-presupposto, di cui artt. 24 ss.. Tale lista si connota per una indubbia eterogeneità, spaziando dai reati contro la vita e la salute individuale a quelli contro i beni ambiente o sul corretto -e privo di interferenze- andamento delle competizioni sportive.
Trattandosi di un webinar in tema di alberghi, propongo un focus sui seguenti reati:
1) Reati contro gli interessi finanziari ed economici dello Stato, dell’Unione Europea o di altro ente pubblico art 24, d.lgs. 231/2001: - malversazione di erogazione pubbliche (art. 316 bis c.p.) che punisce la distrazione di finanziamenti pubblici; - indebita percezione di erogazioni pubbliche (art. 316 ter c.p.) che punisce l’ottenimento di finanziamenti pubblici per mezzo di dichiarazioni mendaci ovvero omettendo informazioni dovute; - truffa ai danni dello stato, art. 640 bis.
ATTENZIONE: se dal reato viene raggiunto un profitto di rilevante entità ovvero si determina un danno di particolare gravità, la sanzione pecuniaria è aumentata (da duecento a seicento quote).
Sanzioni interdittive previste: c) il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; d) l'esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l'eventuale revoca di quelli già concessi; e) il divieto di pubblicizzare beni o servizi.
2) Reati contro la pubblica amministrazione, art. 25, d.lgs. 231/2001: - Peculato e peculato mediante profitto dell’errore altrui, artt. 314 e 316; concussione art. 317 c.p. -Corruzione per esercizio della funzione art. 318 c.p.; -corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio art. 319 c.p.; -induzione indebita a dare o promettere utilità, art 319 quater;- istigazione alla corruzione art. 322 c.p.; -Traffico di influenze illecite, art. 346 bis- ecc.
Sanzioni interdittive: in caso di condanna per artt. 317, 319, 319 quater, 322 (quelle per noi di maggiore interesse), le sanzioni interdittive – con durata temporale in base all’autore del reato- di cui art. 9, comma 2, d.lgs. 231/2001, cioè a) l'interdizione dall'esercizio dell'attività;
b) la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell'illecito); c) il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; d) l'esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l'eventuale revoca di quelli già concessi; e) il divieto di pubblicizzare beni o servizi.
c) Reati societari art 25-ter: - per il delitto di false comunicazioni sociali previsto dall'articolo 2621 del Codice civile, la sanzione pecuniaria da duecento a quattrocento quote;
-per il delitto di false comunicazioni sociali previsto dall'articolo 2621-bis del codice civile, la sanzione pecuniaria da cento a duecento quote; - per i delitti di ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, previsti dall'articolo 2638, primo e secondo comma, del codice civile, la sanzione pecuniaria da duecento a quattrocento quote; - per il delitto di corruzione tra privati, nei casi previsti dal terzo comma dell'articolo 2635 del codice civile, la sanzione pecuniaria da quattrocento a seicento quote e, nei casi di istigazione di cui al primo comma dell'articolo 2635-bis del codice civile, la sanzione pecuniaria da duecento a quattrocento quote; - in generale operazioni societarie illecite ma con sanzioni minori.
d) Reati di omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro art 25-septies: sanzioni interdittive dell’art. 9, comma 2, già elencato prima oltre sanzioni pecuniarie gravi.
e) Ricettazione, riciclaggio e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita ((, nonché autoriciclaggio art 25 octies: si applicano all'ente le sanzioni interdittive previste dall'articolo 9, comma 2, per una durata non superiore a due anni.
f) Reati ambientali art 25 undecies
g) Reati tributari art 25 quinquiesdecies.
Nota bene: Se il reato non si trova nel catalogo, non è legittima l’arbitraria e artificiosa scomposizione di un reato complesso, al fine di permettere una contestazione all’ente del reato atomisticamente considerato che invece rientri nel decreto 231. Tema affrontato da Cass. sez. II, 2009, Rimoldi, riguardante una truffa aggravata in danno dello Stato e frode fiscale, ove essendosi ritenuta la prevalenza per specialità del secondo reato (non contenuto nel catalogo), la Corte ha escluso l’applicabilità della normativa de qua, poiché si sarebbe tradotta in una evidente violazione del principio di legalità.
B) Interesse o Vantaggio: questo secondo elemento strutturale dell’illecito dell’ente derivante da reato, costituisce
Art. 5
Responsabilità dell'ente
1. L'ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio
Tra gli operatori si è a lungo discusso riguardo al significato di queste due nozioni, ad una prima tesi monista è seguita una tesi dualista, quest’ultima prevalente tra dottrina e giurisprudenza. Seguendo, quindi, l’impostazione dualista, l’interesse e il vantaggio sarebbero due nozioni autonome e non sovrapponibili, pur non essendo tra di loro alternative.
Interesse: è ravvisabile ogni qual volta dalla commissione del reato derivino condizioni più favorevoli per l’ente. Inoltre, è da escludere una interpretazione in senso soggettivo, quale criterio che animi o sostenga la sfera psicologica dell’autore nel compimento dell’illecito, orientato - almeno in parte- ad agire nell’interesse dell’ente. La soluzione preferibile è di definirlo riferendosi: all’attitudine oggettiva della condotta, riconoscibile all’esterno. La condotta, allora, può essere studiata esclusivamente in una prospettiva ex ante.
NOTA BENE: per potersi configurare l’illecito, ALMENO l’interesse dell’ente deve sussistere ad un livello minimo, altrimenti troverebbe applicazione la causa di esclusione della punibilità dell’art 5, comma 2, in virtù della quale non è punibile l’ente quando il reato è stato commesso nell’interesse esclusivo proprio dell’autore o di un terzo.
Vantaggio: Tale da intendersi come l’oggettivo beneficio derivato dal reato, non da intendersi in termini strettamente patrimoniali, visto che in altre disposizioni il decreto utilizza la nozione di profitto con un intento strettamente economico.
NOTA BENE: il vantaggio può anche non perseguirsi, ma l’illecito si configura per il sol fatto dell’interesse. Esempio: corruzione di una gara d’appalto, tuttavia, questo si rivela un business con poco profitto o addirittura di esclusiva perdita.
PROBLEMA: come si possono relazionare criteri di imputazione utilitaristici ai reati colposi (per definizione non voluti)?
Entrambi i criteri sono modellati sul paradigma dell’illecito doloso, creando -non pochi- problemi di adattabilità per quanto riguarda gli illeciti colposi, presenti nel catalogo presupposto all’art. 25 septies, d.lgs. 231/2001, in materia di sicurezza sul lavoro. Non bisogna cadere nell’errore di affermare un’assoluta incompatibilità con questo genere di reati. Infatti, è rilevante effettuare una distinzione preliminare tra: reati colposi di mera condotta e reati colposi di evento.
I primi, non presenti nel catalogo del decreto fino all’introduzione dei reati ambientali nell’art. 25 undecies, non darebbero luogo a problematiche sul piano della compatibilità. Questi caratterizzandosi per la capacità di configurarsi mediante la mera violazione di una regola cautelare, prescindendo da una materiale lesione del bene giuridico per il realizzarsi dell’evento, appaiono, in linea teorica, perfettamente compatibili con entrambi i criteri d’imputazione espressi ex art. 5, d.lgs.231/2001.
Per i secondi il discorso cambia: con riferimento ai delitti di omicidio colposo e lesioni personali gravi o gravissime verificatisi in violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro, è operazione ardua dimostrare in sede processuale che gli eventi colposi prima citati possano essere commessi nell’interesse ex ante della persona giuridica, o nel suo vantaggio ex post. Al contrario, eventi del genere producono incalcolabili danni per l’ente, sia sul profilo patrimoniale che d’immagine.
La giurisprudenza in Thyssen-Krupp, (Cass. Pen., S.U., 18 settembre 2014 n. 38343), risolve così il problema: <<I risultati assurdi, incompatibili con la volontà di un legislatore razionale, cui condurrebbe l’interpretazione letterale della norma, accredita senza difficoltà l’unica alternativa, possibile lettura: i concetti di interesse e vantaggio nei reati colposi d’evento, vanno di necessità riferiti alla condotta e non all’esito antigiuridico. Tale soluzione non determina alcuna difficoltà di tipo logico: è ben possibile che una condotta caratterizzata dalla violazione della disciplina cautelare e quindi colposa sia posta in essere nell’interesse dell’ente o determini comunque il conseguimento di un vantaggio>>. In sostanza, poi come sostenuto anche nella successiva evoluzione giurisprudenziale, l’interesse o il vantaggio non è nell’evento -che anzi è dannoso per l’ente- bensì nella condotta antecedente, quindi una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi d’impresa o a far conseguire maggiori utili (esempio mancato acquisto degli strumenti di sicurezza sul lavoro). È più facile nelle ipotesi di colpa cosciente, cioè laddove vi sia consapevolezza della violazione della regola cautelare <<affinché l'interesse per l'ente sussista, sarà certamente necessaria la consapevolezza della violazione delle norme antinfortunistiche, in quanto è proprio da tale violazione che la persona fisica ritiene di poter trarre un beneficio economico per l'ente. (…) Egli, infatti, ripone la propria fiducia nella non verificazione dell'evento, ma, d'altra parte, è pienamente consapevole della violazione delle regole cautelari, e potrebbe porre in essere tale violazione proprio allo scopo, come spesso accade, di ottenere un risparmio di spesa. La volontà di risparmiare è dunque indispensabile affinché sussista l'interesse dell'ente >> (Cass. Pen, Sez. IV, 9 agosto 2018, n. 38363).
C) Il rapporto qualificato:
Gli apicali sono individuati all’art. 5, comma 1, lett. A), come spiegato nella Relazione. Nella disposizione viene usata una formula elastica per evitare una elencazione analitica della categoria che, vista l’eterogeneità degli enti e quindi delle situazioni di riferimento, risulterebbe di difficile realizzazione e comunque lacunosa. Oltre a ciò, la scelta legislativa è orientata in ottica oggettivo-funzionale e copre sia le ipotesi in cui la funzione apicale sia rivestita in via formale (prima parte della lettera a), sia in rapporto all’ «esercizio anche di fatto» delle funzioni medesime (seconda parte della lettera a). Ciò che, quindi, rileva non è l’investitura formale ma lo svolgimento nel concreto dei poteri tipici del soggetto apicale, rendendo ininfluente ad esempio il caso della nomina viziata o colpita da decadenza, oppure il caso dell’attività gestoria da parte di chi non è mai stato formalmente nominato. È opportuno osservare come le funzioni svolte dai soggetti indicati all’art. 5, comma 1, lett. A) siano essenzialmente tre: rappresentanza, amministrazione e direzione, in sostanza sono coloro che orientano l’attività dell’ente.
L’art. 5, lett. B), d.lgs. 231/2001 espande la possibilità di costruire la responsabilità dell’ente anche in caso di reato presupposto commesso da «persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza (subordinati) di uno dei soggetti di cui alla lettera A)», cioè si riferisce ai soggetti in posizione apicale. Come per altro, in virtù dell’approccio funzionalistico scelto dal legislatore, non è da escludere in questa categoria i cc.dd., collaboratori esterni, che se pur non appartenenti all’ente siano sottoposti all’altrui direzione o vigilanza.
D) La colpa d’organizzazione
La colpa d’organizzazione è il criterio «minimale» per fondare la responsabilità da reato dell’ente, sia per quei reati commessi dai soggetti apicali sia da soggetti sottoposti all’altrui direzione o controllo. Con il criterio soggettivo in esame si fa riferimento ad una possibile rimproverabilità dell’ente, causata dalla «mancata adozione o l’inefficace attuazione di un modello di organizzazione e di gestione idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi ovvero il mancato affidamento del compito di vigilare sul funzionamento e sull’osservanza dei modelli a un organismo autonomo dell’ente»,
La colpevolezza, normativizzata agli artt. 6-7, d.lgs. 231/2001, è il secondo momento di imputazione del reato all’ente, e ne costituisce il profilo soggettivo, come il dolo o la colpa per la persona fisica.Proprio la mancata adozione di un modello, che individui i rischi e progetti un sistema di contromisure volte ad impedirli, fonderebbe la colpa d’organizzazione.
Il legislatore si è affidato ad un sistema di presunzioni legali, positive o negative, in base a chi ha commesso il reato presupposto. Nel primo caso, cioè nella situazione in cui l’apicale abbia commesso il reato presupposto, agisce una presunzione di colpa organizzativa, basata sul cd. principio di identificazione della società con i suoi vertici. La società risponde dell’illecito amministrativo poiché si deduce che il reato sia stato voluto -o anche accettato- dall’ente, eccezione a questa presunzione è che la società dimostri che il fatto è contrario alla propria compliance, ascrivibile alla sola volontà ed interesse della persona fisica. In particolare, all’ente spetta un onere probatorio assai complesso, dovendo dimostrare una serie di fattori tra loro concorrenti individuati nell’art. 6.
ART. 6.
Se il reato è stato commesso dalle persone indicate nell'articolo 5, comma 1, lettera a), l'ente non risponde se prova che:
a) l'organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;
b) il compito di vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell'ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo;
c) le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione;
d) non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell'organismo di cui alla lettera b).
Problematiche si sono poste anche sul piano processuale, ove l’art. 6 sembra fissare -almeno dal punto di vista letterale- una inversione dell’onere probatorio, addebitando all’ente il compito di dimostrare le ipotesi -già citate- ai fini dell’esonero della responsabilità. La Cassazione nel noto caso Impregilo s.p.a. ha sancito come spetti all’accusa il compito di accertare tutti gli elementi dell’illecito amministrativo dell’ente, curando di precisare che siano oggetto di questo onere probatorio anche gli «gli elementi identificativi della colpa», ergo la commissione di un reato da soggetto che rientri nella categoria dell’art. 5, d. lgs. 231/2001, e la carente organizzazione interna. La Cassazione afferma perciò che nel d. lgs. 231/2001 non vi è «nessuna inversione dell’onere della prova», liberando l’ente da una “probatio diabolica”, smontando in tal modo la cd. presunzione di colpevolezza dell’ente -da sempre oggetto di discussione-, e non solo, aggiungendo che rimane nel potere dell’ente dimostrare il rispetto degli standard previsti nell’art. 6, per ottenere così i relativi effetti liberatori.
Invece nella diversa ipotesi di reato commesso da soggetti in posizione subordinata, rientrante nella categoria dell’art. 5, co1, lett. B), l’ente è responsabile se l’illecito si è realizzato per l’inosservanza degli obblighi di direzione e controllo (art. 7, comma 1), gravando però sull’accusa l’onere di dimostrare le lacune del sistema prevenzionistico. Il decreto però non si ferma qui nel disciplinare questa casistica, introducendo all’art. 7, comma 2, un nuovo meccanismo di presunzione legale: l’ente non risponderà dell’illecito «se […] prima della commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati delle specie di quello verificatosi.
LE SANZIONI
Le sanzioni per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato vengono elencate all’art. 9, e sono:
a) la sanzione pecuniaria. Questa cerca di rispondere in maniera contrappositiva ed antitetica a tali forme e finalità criminali. Il legislatore ha scelto di sfruttare la quota come unità di misura, valorizzandola sotto un duplice aspetto: il numero delle quote e l’importo della singola. Nel numero, la sanzione deve essere calcolata entro i minimi e i massimi generali previsti ex art. 10, comma 2, o comunque in quelli previsti dalle singole norme di parte speciale, per poi quantificarle sulla base dei criteri dell’art. 11, comma 2: gravità del fatto, grado di responsabilità dell’ente e tenendo conto dell’attività preventivo-riparatoria eventualmente svolta. L’importo della singola quota, calcolata entro i limiti edittali previsti ex art. 10, comma 2, o delle singole norme speciali, viene analizzata in relazione alle condizioni economico-patrimoniali dell’ente. La sanzione è, quindi, il risultato della moltiplicazione tra il numero delle quote ed il valore della singola unità.
b) le sanzioni interdittive. Queste vengono elencate all’art. 9, comma 2, e sono: 1) l'interdizione dall'esercizio dell'attività; 2) la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell'illecito; 3) il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; 4) l'esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l'eventuale revoca di quelli già concessi; 5) il divieto di pubblicizzare beni o servizi.
Ai fini dell’applicazione delle sanzioni interdittive, oltre che essere previste specificatamente dalla norma incriminatrice, devono sussistere le condizioni di cui all’art. 13, cioè l'ente deve aver tratto dal reato un profitto di rilevante entità e il reato è stato commesso da soggetti in posizione apicale ovvero da soggetti sottoposti all'altrui direzione quando, in questo caso, la commissione del reato è stata determinata o agevolata da gravi carenze organizzative; ovvero in caso di reiterazione degli illeciti
c) la confisca del prezzo o del profitto del reato (obbligatoria).
d) la pubblicazione della sentenza. L’art. 18 ci precisa che, la pubblicazione della sentenza può essere disposta se nei confronti dell’ente viene applicata una sanzione interdittiva, la relazione aggiunge che l’irrogazione della pubblicazione della sentenza di condanna è limitata alle «ipotesi più gravi che possono legittimare un interesse pubblico alla conoscenza della condanna».
NOTA BENE: ulteriore sanzione è il commissariamento della società quale misura sostitutiva di quella interdittiva, prevista all’art. 15, d.lgs. 231/2001. È necessario che la sanzione interdittiva sia tale da comportare l’interruzione dell’attività. Questo requisito, data la formulazione generica, non fa riferimento esclusivamente alla specifica pena dell’interdizione dall’esercizio dell’attività, bensì a tutte quelle che nel concreto si pongano come oggettivo ostacolo alla prosecuzione dell’attività, in questi casi sarà necessaria un’adeguata motivazione nella sentenza che dia prova di un valido, quanto complesso, accertamento nel concreto. Riguardo alle seconde, l’ente deve svolgere un «servizio di pubblica necessità o un servizio di pubblica utilità» e l’interruzione di questo può provocare un grave pregiudizio alla collettività «oppure deve essere un ente che indipendentemente dall’attività svolta, la sua interruzione porterebbe ripercussioni sull’occupazione».
I MODELLI DI ORGANIZZAZIONE
Linee essenziali
Le scelte del legislatore nel d.lgs. 231/2001 sono mosse da una consapevolezza ben delineata: il reato d’impresa si radica in strutture organizzative complesse, che esprimono una vera e propria cultura. Dall’idea degli enti come portatori di una tavola di valori, deriva che le scelte societarie debbano allinearsi alle prescrizioni normative. Tale è il riflesso del principio in base al quale le imprese, nel perseguire i propri interessi utilitaristici, non debbano avvantaggiarsi mediante il compimento di azioni proibite, o comunque attraverso comportamenti posti in violazione del generale principio di non arrecare danni a singoli individui o alla collettività.
L’ente può allineare i propri scopi utilitaristi ai valori e ai comportamenti virtuosi, individuati dalle scelte politico criminali del legislatore, tramite i modelli di organizzazione. Questi sono -essenzialmente- dei documenti per mezzo dei quali l’ente si dà delle regole, vi è quindi un fenomeno detto di “autonormazione”. Solo attraverso tale organizzazione è possibile creare menti collettive rispettose della legalità: l’adozione di regole cautelari altamente tassative e descrittive, incardinano nella struttura aziendale dei freni inibitori volti all’impedimento dei reati da parte della società. Ecco, allora, che nei soggetti collettivi la prevenzione del rischio reato non è un problema delle persone presenti, quanto piuttosto di “organizzazione dell’organizzazione. È possibile comprendere, allora, come il sistema preventivo si fondi su due poli: il primo, costituito da una struttura organizzativa che miri a favorire l’assunzione di una morfologia virtuosa; il secondo, con la creazione di un organismo di vigilanza, che contribuisca allo scopo tramite i suoi compiti di controllo effettivo ed aggiornamento del modello. Il paradigma, allora, non è altro che il risultato di un’azione composita e sinergica fondata sul corretto assetto organizzativo ed il controllo permanente del suo funzionamento. I due poli si atteggiano, quindi, in un rapporto di evidente complementarità.
Nota bene: Nonostante una evidente predilezione per le società che ottemperano già ex ante, ai comportamenti – auto – organizzativi, il modello nel d.lgs. 231/2001 manifesta la sua centralità anche post factum, consentendo un riallineamento alla legalità a seguito del compimento di un reato presupposto (vedi dopo).
I Formanti. Per la realizzazione di un siffatto modello, che sia in grado, da un lato, di definire i principi e le regole cautelari e, dall’altro di riuscire ad individuare un’area di “rischio consentito”, dobbiamo fare riferimento a criteri articolati su tre livelli: a) leggi e fonti subordinate; b) “linee guida” redatte dalle associazioni di categoria; c) le migliori prassi fondate sull’esperienza empirica (cd. best practices).
a) Un ruolo preminente è rivestito dagli artt. 6 e 7, d.lgs. 231/2001, che forniscono i parametri per la prevenzione generale dei reati presupposto o, meglio, le indicazioni di principio volte ad indicare agli operatori i settori su cui intervenire: mappatura dell’area di rischio e meccanismi volti all’eliminazione tempestiva di questi, protocolli preventivi, corretta gestione delle risorse finanziarie, flussi informativi e sistema disciplinare.
Art. 6, comma 2
In relazione all'estensione dei poteri delegati e al rischio di commissione dei reati, i modelli di cui alla lettera a), del comma 1, devono rispondere alle seguenti esigenze:
a) individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi reati;
b) prevedere specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l'attuazione delle decisioni dell'ente in relazione ai reati da prevenire;
c) individuare modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati;
d) prevedere obblighi di informazione nei confronti dell'organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli;
e) introdurre un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello.
Art. 7, commi 3 e 4
3. Il modello prevede, in relazione alla natura e alla dimensione dell'organizzazione nonché al tipo di attività svolta, misure idonee a garantire lo svolgimento dell'attività nel rispetto della legge e a scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio.
4. L'efficace attuazione del modello richiede:
a) una verifica periodica e l'eventuale modifica dello stesso quando sono scoperte significative violazioni delle prescrizioni ovvero quando intervengono mutamenti nell'organizzazione o nell'attività;
b) un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello
NOTA BENE: il decreto non pretende troppo da sé stesso: nulla dice riguardo ai mezzi più adeguati ad ottenere l’obiettivo preventivo (esempio è la totale assenza degli elementi sulla concreta consistenza dei protocolli preventivi) o sulla composizione dell’organismo di vigilanza, sui suoi poteri o ancora sulla sua collocazione all’interno del sistema dei controlli societari. La ratio di una simile scelta è stata la consapevolezza dell’innumerevole varietà di possibili enti, settori merceologici e paradigmi giuridici con i quali il decreto entra in contatto. Proprio il dato empirico insegna come, ogni qual volta la legge intervenga rigidamente sul funzionamento degli enti collettivi – e in generale delle entità autorganizzate –, vi sia il concreto pericolo di provocare disfunzioni pratiche. Questo, tuttavia, produce due criticità: in primis, rende difficile e costoso la realizzazione del modello; in secundis, agevola interpretazione arbitrarie della giurisprudenza in sede processuale, orientate verso una declaratoria di inidoneità del MOG per il solo fatto del verificarsi del reato.
b) Linee guida di associazioni di categoria e/o altri enti rappresentativi, es: “Le nuove Linee Guida 231 di Confindustria per la costruzione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo”
c) I saperi circolati dalle esperienze.
Struttura del modello.
La prassi applicativa tende a scindere il modello in due segmenti: la parte cd. “generale” ed una cd. “speciale”.
Parte generale: la parte generale del modello inizia con quella che può definirsi una vera e propria carta d’identità dell’ente, cioè una descrizione della mission dell’ente oltre che dei principi che orientano la suddetta.
Gli elementi di cui si compone la parte generale possono essere così schematizzati:
1) Indicazione della configurazione giuridica scelta dal gruppo collettivo ed i correlati organi di amministrazione, oltre che riportare le eventuali modificazioni intervenute nel tempo. La ratio della necessaria espressione della struttura societaria deriva dalla possibilità di avanzare, già in questo momento, un giudizio del paradigma scelto.
ESEMPIO: l’uso della forma della s.r.l., soprattutto per una società di grandi dimensioni, può essere indicatore di una possibile inidoneità della struttura giuridica. Il profilo critico qui sarebbe determinato dalla composizione del Consiglio di amministrazione: esso è formato unicamente da apicali della società senza la partecipazione di alcun membro indipendente, che possa avere una funzione di “contrappeso istituzionale” contro l’eventuale illegalità del gruppo di comando.
2) La parte generale deve, inoltre, fornire una precisa e dettagliata indicazione di come siano ripartiti i poteri (ed i doveri) nell’organigramma societario e, quindi, anche di coloro che sono dotati di responsabilità di direzione e gestione delle varie unità dell’ente. Qui trova spazio anche la descrizione del sistema delle deleghe, in particolare dovrà contenere: a) l’indicazione dell’attività delegata e della fonte di questo potere; b) il soggetto delegato; c) le risorse economiche che vengono assegnate per l’espletamento di questa attività.
3) L’allegazione di un codice etico, che costituisce elemento centrale della parte generale del modello. Esso consiste in una tavola dei valori che deve ispirare ed orientare l’attività dell’ente, oltre che indicare tutta una serie di comportamenti etici che devono essere realizzati al verificarsi di determinate condizioni.
4) Attività di formazione ed informazione di tali valori. La partecipazione ai corsi deve risultare obbligatoria e devono essere seguiti da una verifica sul livello di apprendimento.
5) Il sistema disciplinare. In questa area del modello vengono analizzati: i criteri di commisurazione e le condotte rilevanti, il ventaglio delle possibili sanzioni (ammonizione verbale o scritta, sanzione pecuniaria, sospensione temporanea dalla carica, destituzione) parametrata alla gravità delle infrazioni. Oltre a ciò, deve essere normativizzato il procedimento di irrogazione della sanzione con l’indicazione del titolare dell’azione disciplinare, le garanzie a tutela dell’accusato e l’ufficio competente ad irrogare la sanzione. Di regola, per dipendenti e dirigenti vengono irrogate le sanzioni previste negli accordi collettivi. La questione, ovviamente, risulta essere più complessa per gli amministratori. Le strade che possono essere percorse sono essenzialmente due: la prima possibilità significa esperire esclusivamente l’azione di responsabilità ex art. 2393 c.c., soluzione che, tuttavia, non convince a pieno; affidarsi esclusivamente a questa potrebbe risultare controproducente, in particolare nei casi di violazioni che si limitino a mere irregolarità formali. L’attivazione di questa procedura risulterebbe eccessiva, e di conseguenza aumenterebbe il rischio di favorire la diffusione di pratiche illecite da parte degli amministratori, vista la loro consapevolezza di rimanere impuniti. Da ciò si aprono le porte ad una seconda strada, cioè la previsione di un autonomo sistema disciplinare per gli amministratori, sottoscritto da questi nell’atto di nomina.
Parte speciale
La parte speciale viene suddivisa dalla prassi in due segmenti:
a) Il risk assessment. Questa fase si connota per la cd. mappatura dei rischi. La mappatura, quindi, si snoda in più fasi, e sono: a) l’individuazione delle aree potenzialmente a rischio-reato; qui è necessario compiere una distinzione tra i settori ad elevato potenziale di rischio per la consumazione dei reati tassativamente individuati nel d.lgs. 231/2001 e le cd. “aree strumentali”; quest’ultime sono settori in cui avviene la gestione degli strumenti finanziari idonei a consentire la commissione di alcuni reati presupposto; b) la valutazione dell’efficacia dei sistemi operativi e di controllo già operativi; c) l’indagine sulla storia passata dell’ente e la valutazione sulla sua – eventuale – propensione all’illegalità; d) la rappresentazione delle possibili modalità di commissione dei reati e costruzione delle cautele preventive.
All’esito di questa sequenza di attività possono definirsi due tipologie di rischio: il cd. “rischio inerente” ed il cd. “rischio residuale”. Il primo è il rischio dettato da una totale assenza di controlli; il secondo, invece, è il grado di rischio permanente insito nella natura stessa dell’attività, che sopravvive nonostante la predisposizione di controlli e cautele. Il rischio residuale è considerabile tollerabile laddove vengano rispettate le prescrizioni normative del decreto. Affinché si possa parlare di rischio sopportabile è necessario che il modello (idoneo, effettivo ed adeguato) non sia aggirabile, se non con il ricorso a condotte fraudolente.
b) Il risk management. Con tale nozione in ambito aziendale viene fatto riferimento alla gestione del rischio-reato, precedentemente individuato sulla base dell’attività di mappatura. Gli individui operanti nei settori classificati come “sensibili” sono imperativamente tenuti all’osservanza dei protocolli. Il sistema di gestione del rischio non deve rimanere come mero adempimento cartaceo, anzi, deve essere effettivo poiché solo così si potrà manifestare l’efficacia esimente del modello ex art. 6, comma 2, b).
Organismo di vigilanza
L’efficace attuazione dei modelli viene garantita dalla previsione dell’organismo di vigilanza. Infatti, l’ente non risponderà del reato qualora riesca a provare che << il compimento di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli e di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo>> e che <<non vi sia stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo di cui alla lettera b>> (art 6).
L’ O.d.V. dovrà quindi: 1) valutare l’adeguatezza del modello a prevenire gli illeciti; 2) vigilare sulla coerenza tra comportamenti e modelli; 3) analizzare le funzionalità del modello; 4) aggiornare il modello; 5) presentare una relazione informativa (solitamente semestrale) all’organo dirigente e/o al Collegio Sindacale.
NOTA BENE: Negli enti di piccole dimensioni il compito di vigilare sull’osservanza dei modelli e di curare il loro aggiornamento può essere assegnato all’organo dirigente. Sono intuibile le criticità di una simile scelta.
La composizione dell’O.d.V.
In assenza di specifica norma, la prassi e la logica societaria vuole che spetti al vertice dell’ente (ad esempio il Consiglio di amministrazione) il potere di nominare i membri dell’organo.
Dal punto di vista strutturale il legislatore del 2001 ha scelto di non optare per una disciplina dettagliata, così da permettere un’architettura dell’organismo in armonia con le caratteristiche e dimensioni dell’ente. L’ampia libertà riservata agli operatori del settore si concretizzerà in un paradigma di vigilanza diverso, a seconda delle funzioni che esso dovrà effettivamente assolvere nel contesto aziendale.
Alcune caratteristiche:
a) La risposta unanime della dottrina e degli operatori aziendali si direziona per necessario costruire un nuovo e distinto organo, salvo che per quanto detto riguardo gli enti di piccole dimensioni e per le società di capitali nelle quali questa attività può essere svolta dal collegio sindacale, il consiglio di sorveglianza o il comitato di controllo della gestione (art. 6, comma 4 bis);
b) primo requisito, rimanendo nel tema sub b), è l’autonomia. Deve essere definito come il potere dell’organismo di attivarsi, senza dover ricevere autorizzazioni esterne, per effettuare ispezioni e vigilanza al fine di prevenire eventuali violazioni.
c) secondo requisito dell’O.d.V. è l’indipendenza dei suoi membri. Le persone che lo compongono non devono trovarsi in conflitto d’interesse con l’ente, non devono appartenere ai vertici di questa o essere la rappresentanza del gruppo di comando. La preferenza nella prassi operativa è per l’utilizzo di un sistema misto, con soggetti già interni alla struttura societaria ed elementi estranei ad essa. Regola generale è l’inammissibilità, poi, di nominare soggetti che, collocati in vicinanza agli apicali, partecipano alla formazione degli indirizzi strategici dell’impresa;
d) Terzo requisito è la professionalità, intesa come la sussistenza di competenze multidisciplinari (diritto societario, fiscali, tecnico-contabili e penali) che devono essere presenti nell’organismo collegiale. Tra l’altro, questo requisito di professionalità può essere integrato tramite risorse esterne (consulenze).
e) Quarto requisito è la continuità d’azione: l’O.d.V. deve garantire l’assolvimento dei suoi compiti nel tempo, mantenendo una costante interazione con gli organi amministrativi. Al contrario, tale requisito verrebbe meno in presenza di un’attività saltuaria.
Dott. Luca Costantini